by P Sanasi · Cited by 143 — grande, non è parte e non è tutto a riguardo dell’infinito, e non può esser suggetto de e compone da le parti che sono vapori ed exalazioni de la terra.
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PROEMIALE EPISTOLA, SCRITTA ALL’ILLUSTRISSIMO SIGNOR MICHEL DI CASTELNOVO Signor di Mauvissiero, Concressalto e di Ionvilla, Cavallier de l’ordine del Re Cristianissimo, Conseglier del suo privato Conseglio, Capitano di 50 uomini d’arme e Ambasciator alla Serenissima Regina d’Inghilterra. Se io, illustrissimo Cavalliero, contrattasse l’aratro, pascesse un gregge, coltivasse un orto, rassettasse un vestimento, nessuno mi guardarebbe, pochi m’osservarebono, da rari sarei ripreso e facilmente potrei piacere a tutti. Ma per essere delineatore del campo de la natura, sollecito circa la pastura de l’alma, vago de la coltura de l’ingegno e dedalo circa gli abiti de l’intelletto, ecco che chi adocchiato me minaccia, chi osservato m’assale, chi giunto mi morde, chi compreso mi vora; non è uno, non son pochi, son molti, son quasi tutti. Se volete intendere onde sia questo, vi dico che la caggione è l’universitade che mi dispiace, il volgo ch’odio, la moltitudine che non mi contenta, una che m’innamora: quella per cui son libero in suggezione, contento in pena, ricco ne la necessitade e vivo ne la morte; quella per cui non invidio a quei che son servi nella libertà, han pena nei piaceri, son poveri ne le ricchezze e morti ne la vita, perché nel corpo han la catena che le stringe, nel spirto l’inferno che le deprime, ne l’alma l’errore che le ammala, ne la mente il letargo che le uccide; non essendo magnanimità che le delibere, non longanimità che le inalze, non splendor che le illustre, non scienza che le avvive. Indi accade che non ritrao, come lasso, il piede da l’arduo camino; né, come desidioso, dismetto le braccia da l’opra che si presenta; né, qual disperato, volgo le spalli al nemico che mi contrasta; né, come abbagliato, diverto gli occhi dal divino oggetto; mentre, per il più, mi sento riputato sofista, più studioso d’apparir sottile che di esser verace; ambizioso, che più studia di suscitar nova e falsa setta che di confirmar l’antica e vera; ucellatore, che va procacciando splendor di gloria con porre avanti le tenebre d’errori; spirto inquieto, che subverte gli edificii de buone discipline e si fa fondator di machine di perversitade. Cossì, Signor, gli santi numi disperdano da me que’ tutti che ingiustamente m’odiano, cossì mi sia propicio sempre il mio Dio, cossì favorevoli mi sieno tutti governatori del nostro mondo, cossì gli astri mi faccian tale il seme al campo ed il campo al seme ch’appaia al mondo utile e glorioso frutto del mio lavoro con risvegliar il spirto ed aprir il sentimento a quei che son privi di lume: come io certissimamente non fingo e, se erro, non credo veramente errare e, parlando e scrivendo, non disputo per amor de la vittoria per se stessa (perché ogni riputazione e vittoria stimo nemica a Dio, vilissima e senza punto di onore, dove non è la verità), ma per amor della vera sapienza e studio della vera contemplazione m’affatico, mi crucio, mi tormento. Questo manifestaranno gli argumenti demostrativi, che pendeno da vivaci raggioni, che derivano da regolato senso, che viene informato da non false specie che, come veraci ambasciatrici, si spiccano da gli suggetti de la natura, facendosi presenti a quei che le cercano, aperte a quei che le rimirano, chiare a chi le apprende, certe a chi le comprende. Or ecco, vi porgo la mia contemplazione circa l’infinito, universo e mondi innumerabili. Argomento del primo dialogo. Avete dunque nel primo dialogo prima, che l’inconstanza del senso mostra che quello non è principio di certezza e non fa quella se non per certa comparazione e conferenza d’un sensibile a l’altro ed un senso a l’altro; e s’inferisce come la verità sia in diversi soggetti. Secondo, si comincia a dimostrar l’infinitudine de l’universo, e si porta il primo argumento tolto da quel, che non si sa finire il mondo da quei che con l’opra de la fantasia vogliono fabricargli le muraglia. Terzo, da che è inconveniente dire che il mondo sia finito e che sia in se stesso, perché
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4 questo conviene al solo immenso, si prende il secondo argumento. Appresso si prende il terzo argumento dall’inconveniente ed impossibile imaginazione del mondo come sia in nessun loco, perché ad ogni modo seguitarrebe che non abbia essere, atteso che ogni cosa, o corporale o incorporal che sia, o corporale- o incorporalmente, è il loco. Il quarto argumento si toglie da una demostrazione o questione molto urgente che fanno gli epicurei: Nimirum si iam finitum constituatur omne quod est spacium, si quis procurrat ad oras Ultimus extremas iaciatque volatile telum, Invalidis utrum contortum viribus ire Quo fuerit missum mavis longeque volare, An prohibere aliquid censes obstareque posse? Nam sive est aliquid quod prohibeat officiatque, Quominu’ quo missum est veniat finique locet se, Sive foras fertur, non est ea fini profecto. Quinto, da che la definizion del loco che poneva Aristotele non conviene al primo, massimo e comunissimo loco, e che non val prendere la superficie prossima ed immediata al contenuto, ed altre levitadi che fanno il loco cosa matematica e non fisica; lascio che tra la superficie del continente e contenuto che si muove entro quella, sempre è necessario spacio tramezante a cui conviene più tosto esser loco; e se vogliamo del spacio prendere la sola superficie, bisogna che si vada cercando in infinito un loco finito. Sesto, da che non si può fuggir il vacuo ponendo il mondo finito, se vacuo è quello nel quale è niente. Settimo, da che, sicome questo spacio nel quale è questo mondo, se questo mondo non vi si trovasse, se intenderebbe vacuo; cossì dove non è questo mondo, se v’intende vacuo. Citra il mondo, dunque, è indifferente questo spacio da quello: dunque, l’attitudine ch’ha questo, ha quello; dunque, ha l’atto, perché nessuna attitudine è eterna senz’atto; e però eviternamente ha l’atto gionto; anzi essalei è atto, perché nell’eterno non è differente l’essere e posser essere. Ottavo, da quel che nessun senso nega l’infinito, atteso che non lo possiamo negare per questo, che non lo comprendiamo col senso; ma da quel, che il senso viene compreso da quello e la raggione viene a confirmarlo lo doviamo ponere. Anzi se oltre ben consideriamo, il senso lo pone infinito; perché sempre veggiamo cosa compresa da cosa, e mai sentiamo, né con esterno né con interno senso, cosa non compresa da altra o simile. Ante oculos etenim rem res finire videtur: Aer dissepit colleis atque aera montes, Terra mare et contra mare terras terminat omneis: Omne quidem vero nihil est quod finiat extra. Usque adeo passim patet ingens copia rebus, Finibus exemptis, in cunctas undique parteis. Per quel dunque, che veggiamo, più tosto doviamo argumentar infinito, perché non ne occorre cosa che non sia terminata ad altro e nessuna esperimentiamo che sia terminata da se stessa. Nono, da che non si può negare il spacio infinito se non con la voce, come fanno gli pertinaci, avendo considerato che il resto del spacio, dove non è mondo e che si chiama vacuo o si finge etiam niente, non si può intendere senza attitudine a contenere non minor di questa che contiene. Decimo, da quel che, sicome è bene che sia questo mondo, non è men bene che sia ciascuno de infiniti altri. Undecimo, da che la bontà di questo mondo non è comunicabile ad altro mondo che esser possa, come il mio essere non è comunicabile al di questo e quello. Duodecimo, da che non è raggione né senso che, come si pone un infinito individuo, semplicissimo e complicante, non permetta che sia un infinito corporeo ed esplicato. Terzodecimo, da che questo spacio del mondo che a noi par tanto grande, non è parte e non è tutto a riguardo dell’infinito, e non può esser suggetto de infinita operazione, ed a quella è un non ente quello che dalla nostra imbecillità si può comprendere, e si
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5 risponde a certa instanza, che noi non ponemo l’infinito per la dignità del spacio, ma per la dignità de le nature; perché per la raggione, da la quale è questo, deve essere ogni altro che può essere, la cui potenza non è attuata per l’essere di questo, come la potenza de l’essere di Elpino non è attuata per l’atto dell’essere di Fracastorio. Quartodecimo da che, se la potenza infinita attiva attua l’esser corporale e dimensionale, questo deve necessariamente essere infinito; altrimente si deroga alla natura e dignitade di chi può fare e di chi può essere fatto. Quintodecimo, da quel, che questo universo conceputo volgarmente non si può dir che comprende la perfezion di tutte cose altrimente che come io comprendo la perfezione di tutti gli miei membri e ciascun globo tutto quello che è in esso: come è dire, ognuno è ricco a cui non manca nulla di quel ch’ha. Sestodecimo, da quel, che in ogni modo l’efficiente infinito sarrebe deficiente senza l’effetto e non possiamo capir che tale effetto solo sia lui medesimo. Al che si aggiunge che per questo, se fusse o se è, niente si toglie di quel che deve essere in quello che è veramente effetto, dove gli teologi nominano azione ad extra e transeunte, oltre la immanente; perché cossì conviene che sia infinita l’una come l’altra. Decimo settimo, da quel, che, dicendo il mondo interminato, nel modo nostro séguita quiete nell’intelletto, e dal contrario sempre innumerabilmente difficultadi ed inconvenienti. Oltre, si replica quel ch’è detto nel secondo e terzo. Decimo ottavo, da quel che, se il mondo è sferico, è figurato, è terminato, e quel termine che è oltre questo terminato e figurato (ancor che ti piaccia chiamarlo niente), è anco figurato di sorte che il suo concavo è gionto al di costui convesso; perché onde comincia quel tuo niente è una concavità indifferente almeno dalla convessitudinale superficie di questo mondo. Decimo nono, s’aggiunge a quel che è stato detto nel secondo. Ventesimo, si replica quello che è stato detto nel decimo. Nella seconda parte di questo dialogo, quello ch’è dimostrato per la potenza passiva de l’universo, si mostra per l’attiva potenza de l’efficiente, con più raggioni: de le quali la prima si toglie da quel, che la divina efficacia non deve essere ociosa; e tanto più ponendo effetto extra la propria sustanza (se pur cosa gli può esser extra), e che non meno è ociosa ed invidiosa producendo effetto finito che producendo nulla. La seconda da la prattica, perché per il contrario si toglie la raggione della bontade e grandezza divina, e da questo non séguita inconveniente alcuno contra qualsivoglia legge e sustanza di teologia. La terza è conversiva con la duodecima de la prima parte; e si apporta la differenza tra il tutto infinito e totalmente infinito. La quarta, da che non meno per non volere che per non possere la omnipotenza vien biasimata d’aver fatto il mondo finito e di essere agente infinito circa suggetto finito. La quinta induce che, se non fa il mondo infinito, non lo può fare; e se non ha potenza di farlo infinito, non può aver vigore di conservarlo in infinito; e che, se lui secondo una raggione è finito, viene ad essere finito secondo tutte le raggioni, perché in lui ogni modo è cosa, e ogni cosa e modo è uno e medesimo con l’altra e l’altro. La sesta è conversiva de la decima de la prima parte. E s’apporta la causa per la quale gli teologi defendeno il contrario non senza espediente raggione, e de l’amicizia tra questi dotti e gli dotti filosofi. La settima, dal proponere la raggione che distingue la potenza attiva da l’azioni diverse, e sciorre tale argumento. Oltre, si mostra la potenza infinita intensiva- ed estensivamente più altamente che la comunità di teologi abbia giamai fatto. La ottava, da onde si mostra che il moto di mondi infiniti non è da motore estrinseco ma da la propria anima, e come con tutto ciò sia un motore infinito. La nona, da che si mostra come il moto infinito intensivamente si verifica in ciascun de’ mondi. Al che si deve aggiongere che da quel, che un mobile insieme insieme si muove ed è mosso, séguita che si possa vedere in ogni punto del circolo che fa col proprio centro; ed altre volte sciorremo questa obiezione, quando sarà lecito d’apportar la dottrina più diffusa. Argomento del secondo dialogo. Séguita la medesima conclusione il secondo dialogo. Ove, primo, apporta quattro raggioni, de quali la prima si prende da quel, che tutti gli attributi de la divinità sono come ciascuno. La seconda, da che la nostra imaginazione non deve posser stendersi più che la divina azione. La terza, da l’indifferenza de l’intelletto ed azion divina, e da che non meno intende infinito che finito. La
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6 quarta, da che, se la qualità corporale ha potenza infinita attiva, la qualità, dico, sensibile a noi, or che sarà di tutta che è in tutta la potenza attiva e passiva absoluta? Secondo, mostra da che cosa corporea non può esser finita da cosa incorporea, ma o da vacuo o da pieno; ed in ogni modo estra il mondo è spacio, il quale al fine non è altro che materia e l’istessa potenza passiva, dove la non invida ed ociosa potenza attiva deve farsi in atto. E si mostra la vanità dell’argomento d’Aristotele dalla incompossibilità delle dimensioni. Terzo, se insegna la differenza che è tra il mondo e l’universo, perché chi dice l’universo infinito uno, necessariamente distingue tra questi dui nomi. Quarto, si apportano le raggioni contrarie, per le quali si stima l’universo finito: dove Elpino referisce le sentenze tutte di Aristotele, e Filoteo le va essaminando. Quelle sono tolte altre dalla natura di corpi semplici, altre da la natura di corpi composti; e si mostra la vanità di sei argumenti presi dalla definizione de gli moti che non possono essere in infinito, e da altre simili proposizioni, le quali son senza proposito e supposito, come si vede per le nostre raggioni. Le quali più naturalmente faran vedere la raggione de le differenze e termino di moto, e, per quanto comporta l’occasione e loco, mostrano la più reale cognizione dell’appulso grave e lieve; perché per esse mostramo come il corpo infinito non è grave né lieve, e come il corpo finito riceve differenze tali, e come non. Ed indi si fa aperta la vanità de gli argomenti di Aristotele, il quale, argumentando contra quei che poneno il mondo infinito, suppone il mezzo e la circonferenza, e vuole che nel finito o infinito la terra ottegna il centro. In conclusione, non è proposito grande o picciolo che abbia amenato questo filosofo per destruggere l’infinità del mondo, tanto dal primo libro Del cielo e mondo quanto dal terzo De la fisica ascoltazione, circa il quale non si discorra assai più che a bastanza. Argomento del terzo dialogo. Nel terzo dialogo primieramente si niega quella vil fantasia della figura, de le sfere e diversità di cieli; e s’affirma uno essere il cielo, che è uno spacio generale ch’abbraccia gl’infiniti mondi; benché non neghiamo più, anzi infiniti cieli, prendendo questa voce secondo altra significazione; per ciò che come questa terra ha il suo cielo, che è la sua regione nella quale si muove e per la quale discorre, cossì ciascuna di tutte l’altre innumerabili. Si manifesta onde sia accaduta la imaginazione di tali e tanti mobili deferenti e talmente figurati che abbiano due superficie esterne ed una cava interna; ed altre ricette e medicine che dànno nausea ed orrore agli medesimi che le ordinano e le esequiscono, e a que’ miseri che se le inghiottiscono. Secondo, si avertisce che il moto generale e quello de gli detti eccentrici e quanti possono riferirse al detto firmamento, tutti sono fantastici: che realmente pendeno da un moto che fa la terra con il suo centro per l’ecliptica e quattro altre differenze di moto che fa circa il centro de la propria mole. Onde resta, che il moto proprio di ciascuna stella si prende da la differenza che si può verificare suggettivamente in essa come mobile da per sé per il campo spacioso. La qual considerazione ne fa intendere, che tutte le raggioni del mobile e moto infinito son vane e fondate su l’ignoranza del moto di questo nostro globo. Terzo, si propone come non è stella che non si muova come questa ed altre che, per essere a noi vicine, ne fanno conoscere sensibilmente le differenze locali di moti loro; ma che altrimente se muoveno gli soli che son corpi dove predomina il foco, altrimente le terre ne le quali l’acqua è predominante; e quindi si manifesta onde proceda il lume che diffondeno le stelle, de quali altre luceno da per sé altre per altro. Quarto, in qual maniera corpi distantissimi dal sole possano equalmente come gli più vicini partecipar il caldo; e si riprova la sentenza attribuita ad Epicuro, come che vuole un sole esser bastante all’infinito universo; e s’apporta la vera differenza tra quei astri che scintillano e quei che non. Quinto s’essamina la sentenza del Cusano circa la materia ed abitabilità di mondi e circa la raggion del lume. Sesto, come di corpi, benché altri sieno per sé lucidi e caldi, non per questo il sole luce al sole e la terra luce alla medesima terra ed acqua alla medesima acqua; ma sempre il lume procede dall’apposito astro, come sensibilmente veggiamo tutto il mar lucente da luoghi eminenti, come da monti; ed essendo noi nel mare, e quando siamo ne l’istesso campo, non
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8 da chi profondamente vede, si prende raggione per cui non debbano esser mondi come nella circonferenza dell’etere, o vicini al vacuo tale in cui non sia potenza, virtù ed operazione; perché da un lato non potrebono prender vita e lume. Quarto, come la distanza locale muta la natura del corpo, e come non; ed onde sia che, posta una pietra equidistante da due terre, o si starebbe ferma, o determinarebbe di moversi più tosto a l’una che a l’altra. Quinto, quanto s’inganni Aristotele per quel che in corpi, quantunque distanti, intende appulso di gravità o levità de l’uno all’altro; ed onde proceda l’appetito di conservarsi nell’esser presente, quantunque ignobile, ne le cose: il quale appetito è causa della fuga e persecuzione. Sesto, che il moto retto non conviene né può esser naturale a la terra o altri corpi principali, ma a le parti di questi corpi che a essi da ogni differenza di loco, se non son molto discoste, si muoveno. Settimo, da le comete si prende argomento che non è vero che il grave, quantunque lontano, abbia appulso o moto al suo continente. La qual raggione corre non per gli veri fisici principii, ma dalle supposizioni della filosofia d’Aristotele, che le forma e compone da le parti che sono vapori ed exalazioni de la terra. Ottavo, a proposito d’un altro argomento, si mostra come gli corpi semplici, che sono di medesima specie in altri mondi innumerabili, medesimamente si muovano; e qualmente la diversità numerale pone diversità de luoghi, e ciascuna parte abbia il suo mezzo e si referisca al mezzo commune del tutto; il quale mezzo non deve essere cercato nell’universo. Nono, si determina che gli corpi e parti di quelli non hanno determinato su e giù, se non in quanto che il luogo della conversazione è qua o là. Decimo, come il moto sia infinito, e qual mobile tenda in infinito ed a composizioni innumerabili, e che non perciò séguita gravità o levità con velocità infinita; e che il moto de le parti prossime, in quanto che serbino il loro essere, non può essere infinito; e che l’appulso de parti al suo continente non può essere se non infra la regione di quello. Argomento del quinto dialogo. Nel principio del quinto dialogo si presenta un dotato di più felice ingegno; il qual, quantunque nodrito in contraria dottrina, per aver potenza di giudicar sopra quello ch’ave udito e visto, può far differenza tra una ed un’altra disciplina, e facilmente si rimette e corregge. Si dice chi sieno quei a’ quali Aristotele pare un miracolo di natura, atteso che coloro che malamente l’intendeno e hanno l’ingegno basso, magnificamente senteno di lui. Perché doviamo compatire a simili, e fuggir la lor disputazione, per ciò che con essi non vi è altro che da perdere. Qua Albertino, nuovo interlocutore, apporta dodici argumenti, ne li quali consiste tutta la persuasione contraria alla pluralità e moltitudine di mondi. Il primo si prende da quel, che estra il mondo non s’intende loco né tempo né vacuo né corpo semplice, né composto. Il secondo, da l’unità del motore. Il terzo, da luoghi de corpi mobili. Il quarto, dalla distanza de gli orizonti dal mezzo. Il quinto, dalla contiguità de più mondi orbiculari. Il sesto, da spacii triangulari che causano con il suo contatto. Il settimo, dall’infinito in atto, che non è, e da un determinato numero, che non è più raggionevole che l’altro. Da la qual raggione noi possiamo non solo equalmente, ma e di gran vantaggio inferire, che per ciò il numero non deve essere determinato, ma infinito. L’ottavo, dalla determinazione di cose naturali e dalla potenza passiva de le cose, la quale alla divina efficacia ed attiva potenza non risponde. Ma qua è da considerare che è cosa inconvenientissima, che il primo ed altissimo sia simile ad uno ch’ha virtù di citarizare e, per difetto ci citara, non citareggia; e sia uno che può fare, ma non fa, perché quella cosa che può fare, non può esser fatta da lui. Il che pone una più che aperta contradizione, la quale non può essere non conosciuta, eccetto che da quei che conoscono niente. Il nono dalla bontà civile che consiste nella conversazione. Il decimo, da quel, che per la contiguità d’un mondo con l’altro séguita, che il moto de l’uno impedisca il moto de l’altro. L’undecimo, da quel, che, se questo mondo è compìto e perfetto, non è dovero che altro o altri se gli aggiunga o aggiungano. Questi son que’ dubii e motivi, nella soluzion delli quali consiste tanta dottrina, quanta sola basta a scuoprir gl’intimi e radicali errori de la filosofia volgare ed il pondo e momento de la nostra. Ecco
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9 qua la raggione, per cui non doviam temere che cosa alcuna diffluisca, che particolar veruno o si disperda o veramente inanisca o si diffonda in vacuo che lo dismembre in adni[c]hilazione. Ecco la raggion della mutazion vicissitudinale del tutto, per cui cosa non è di male da cui non s’esca, cosa non è di buono a cui non s’incorra, mentre per l’infinito campo, per la perpetua mutazione, tutta la sustanza persevera medesima ed una. Dalla qual contemplazione, se vi sarremo attenti, avverrà che nullo strano accidente ne dismetta per doglia o timore, e nessuna fortuna per piacere o speranza ne estoglia: onde aremo la via vera alla vera moralità, saremo magnanimi, spreggiatori di quel che fanciulleschi pensieri stimano; e verremo certamente più grandi che que’ dei che il cieco volgo adora, perché dovenerremo veri contemplatori dell’istoria de la natura, la quale è scritta in noi medesimi, e regolati executori delle divine leggi, che nel centro del nostro core son inscolpite. Conosceremo che non è altro volare da qua al cielo che dal cielo qua, non altro ascendere da qua là che da là qua, né è altro descendere da l’uno a l’altro termine. Noi non siamo più circonferenziali a essi che essi a noi; loro non sono più centro a noi che noi a loro; non altrimente calcamo la stella e siamo compresi noi dal cielo, che essi loro. Eccone, dunque, fuor d’invidia; eccone liberi da vana ansia e stolta cura di bramar lontano quel tanto bene che possedemo vicino e gionto. Eccone più liberi dal maggior timore che loro caschino sopra di noi, che messi in speranza che noi caschiamo sopra di loro; perché cossì infinito aria sustiene questo globo come quelli, cossì questo animale libero per il suo spacio discorre ed ottiene la sua reggione come ciascuno di quegli altri per il suo. Il che considerato e compreso che arremo, oh a quanto più considerare e comprendere ne diportaremo! Onde per mezzo di questa scienza otteneremo certo quel bene, che per l’altre vanamente si cerca. Questa è quella filosofia che apre gli sensi, contenta il spirto, magnifica l’intelletto e riduce l’uomo alla vera beatitudine che può aver come uomo, e consistente in questa e tale composizione; perché lo libera dalla sollecita cura di piaceri e cieco sentimento di dolori, lo fa godere dell’esser presente, e non più temere che sperare del futuro; perché la providenza o fato o sorte, che dispone della vicissitudine del nostro essere particolare, non vuole né permette che più sappiamo dell’uno che ignoriamo dell’altro, alla prima vista e primo rancontro rendendoci dubii e perplessi. Ma mentre consideramo più profondamente l’essere e sustanza di quello in cui siamo inmutabili, trovaremo non esser morte, non solo per noi, ma né per veruna sustanza; mentre nulla sustanzialmente si sminuisce, ma tutto, per infinito spacio discorrendo, cangia il volto. E perché tutti soggiacemo ad ottimo efficiente, non doviamo credere, stimare e sperare altro, eccetto che come tutto è da buono; cossì tutto è buono, per buono ed a buono; da bene, per bene, a bene. Del che il contrario non appare se non a chi non apprende altro che l’esser presente, come la beltade dell’edificio non è manifesta a chi scorge una minima parte di quello, come un sasso, un cemento affisso, un mezzo parete; ma massime a colui che può vedere l’intiero e che ha facultà di far conferenza di parti a parti. Non temiamo che quello che è accumulato in questo mondo, per la veemenza di qualche spirito errante o per il sdegno di qualche fulmineo Giove, si disperga fuor di questa tomba o cupola del cielo, o si scuota ed emuisca come in polvere fuor di questo manto stellifero; e la natura de le cose non altrimente possa venire ad inanirsi in sustanza, che alla apparenza di nostri occhi quell’aria ch’era compreso entro la concavitade di una bolla, va in casso; perché ne è noto un mondo, in cui sempre cosa succede a cosa senza che sia ultimo profondo, da onde, come da la mano del fabro, irreparabilmente emuiscano in nulla. Non sono fini, termini, margini, muraglia che ne defrodino e suttragano la infinita copia de le cose. Indi feconda è la terra ed il suo mare; indi perpetuo è il vampo del sole, sumministrandosi eternamente esca a gli voraci fuochi ed umori a gli attenuati mari; perché dall’infinito sempre nova copia di materia sottonasce. Di maniera che megliormente intese Democrito ed Epicuro che vogliono tutto per infinito rinovarsi e restituirsi, che chi si forza di salvare eterno la costanza de l’universo, perché medesimo numero a medesimo numero sempre succeda e medesime parti di materia con le medesime sempre si convertano. Or provedete, signori astrologi, con li vostri pedissequi fisici, per que’ vostri cerchi che vi discriveno le fantasiate nove sfere mobili; con le quali venete ad impriggionarvi il cervello di sorte che me vi presentate non altrimente che come tanti papagalli in gabbia, mentre raminghi vi veggio ir saltellando, versando e
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10 girando entro quelli. Conoscemo che sì grande imperatore non ha sedia sì angusta, sì misero solio, sì arto tribunale, sì poco numerosa corte, sì picciolo ed imbecille simulacro, che un fantasma parturisca, un sogno fracasse, una mania ripare, una chimera disperda, una sciagura sminuisca, un misfatto ne toglia, un pensiero ne restituisca; che con un soffio si colme e con un sorso si svode; ma è un grandissimo ritratto, mirabile imagine, figura eccelsa, vestigio altissimo, infinito ripresentante di ripresentato infinito, e spettacolo conveniente all’eccellenza ed eminenza di chi non può esser capito, compreso, appreso. Cossì si magnifica l’eccellenza de Dio, si manifesta la grandezza de l’imperio suo: non si glorifica in uno, ma in soli innumerabili: non in una terra, un mondo, ma in diececento mila, dico in infiniti. Di sorte che non è vana questa potenza d’intelletto, che sempre vuole e puote aggiungere spacio a spacio, mole a mole, unitade ad unitade, numero a numero, per quella scienza che ne discioglie da le catene di uno angustissimo, e ne promove alla libertà d’un augustissimo imperio, che ne toglie dall’opinata povertà ed angustia alle innumerevoli ricchezze di tanto spacio, di sì dignissimo campo, di tanti coltissimi mondi; e non fa che circolo d’orizonte, mentito da l’occhio in terra e finto da la fantasia nell’etere spacioso, ne possa impriggionare il spirto sotto la custodia d’un Plutone e la mercé d’un Giove. Siamo exempti da la cura d’un tanto ricco possessore e poi tanto parco, sordido ed avaro elargitore, e dalla nutritura di sì feconda e tuttipregnante e poi sì meschina e misera parturiscente natura. Altri molti sono i degni ed onorati frutti che da questi arbori si raccoglieno, altre le messe preciose e desiderabili che da questo seme sparso riportar si possono. Le quali, per non più importunamente sollecitar la cieca invidia de gli nostri adversarii, non ameniamo a mente, ma lasciamo comprendere dal giudizio di quei che possono comprendere e giudicare. Li quali, da per se medesimi, potranno facilmente a questi posti fondamenti sopraedificar l’intiero edificio de la nostra filosofia; gii cui membri, se cossì piacerà a chi ne governa e muove, e se l’incominciata impresa non ne verrà interrotta, ridurremo alla tanto bramata perfezione, a fine che quello, che è seminato ne gli dialogi De la causa, principio ed uno, per altri germoglie, per altri cresca, per altri si mature, per altri, mediante una rara mietitura, ne addite e, per quanto è possibile, ne contente; mentre (avendolo sgombrato de le veccie, de gli lolii e de le raccolte zizanie) di frumento meglior che possa produr terreno de la nostra coltura, verremo ad colmar il magazzino de studiosi ingegni. Tra tanto, benché son certo che non è bisogno de lo raccomandarvi, non lasciarò pure, per far parte del debito mio, di procurar che vi sia veramente raccomandato quello che non intrattenete tra vostri familiari come uomo di cui avete bisogno, ma come persona che ha bisogno di voi per tante e tante caggioni che vedete; considerando che, per aver appresso di voi tanti che vi serveno, non siete differente da plebei, borsieri e mercanti; ma, per aver alcunamente degno che da voi sia promosso, difeso ed aggiutato, sète, come sempre vi siete mostrato e fuste, conforme a’ principi magnanimi, eroi e Dei, li quali hanno ordinati pari vostri per la difesa de gli loro amici. E vi ricordo quel che so che non bisogna ricordarvi: che non potrete al fine esser tanto stimato dal mondo e gratificato da Dio, per essere amato e rispettato da principi quantosivoglia grandi de la terra, quanto per amare, difendere e conservare un di simili. Perché non è cosa che quelli che con la fortuna vi son superiori, possono fare a voi che molti di lor superate con la virtude, che possa durare più che gli vostri pareti e tapezzarie; ma tal cosa voi possete fare ad altri, che facilmente vegna scritta nel libro dell’eternitade, o sia quello che si vede in terra o sia quell’altro che si crede in cielo: atteso che quanto che ricevete da altri, è testimonio de l’altrui virtute, ma il tanto che fate ad altro, è segno ed indizio espresso de la vostra. Vale.
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